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La mostra . Riflessioni di una osservatrice



Entrando all’interno della mostra I believe, si è subito colpiti da una cosa: tutti i volti di uomini, donne, ragazzi, esposti nelle cornici appese alle pareti, che emergono dal buio dello sfondo, illuminati da una bella luce, hanno uno sguardo per te, osservatore, che ti poni di fronte.

Niente pose assorte o ispirate, niente occhi rivolti a un altrove lontano, niente espressioni improntate a suscitare reconditi misteri. Tutti ti guardano dritto negli occhi, con espressione semplice, franca e serena, spesso gioiosa, accogliendo il tuo di sguardo, che vaga da un ritratto all’altro, cercando di capire il senso di quei visi, il senso del tuo essere lì a “guardare”. E mentre con gli occhi giri intorno a un ritratto, ti accorgi che il suo sguardo non muta, rimane fermo su di te. Trovarsi in una mostra in cui tutti i quadri ti guardano genera una strana sensazione.

Chi la visita, aggirandosi tra le pareti dell'esposizione, si chiede: chi è il vero spettatore? Chi è il guardato? A quel punto, la cosa più sensata è mettersi lì, con calma, di fronte ad ogni volto, cercando di ricambiare il suo sguardo. In questi casi la visita di una mostra si trasforma in qualcos’altro: da visione rivolta verso oggetti, dei quali si cerca un significato, diventa un guardarsi reciproco, una relazione, in cui ci si riconosce a vicenda.

Ma attenzione a non cercare in questi visi il riflesso di se stessi. Una vera relazione accetta il rischio di accogliere l’altro, in tutta la sua diversità. In “I believe” si può, perché l’altro, oltre allo sguardo, ha anche una storia da raccontare. La si può leggere. E lì ci si accorge in effetti che è una storia diversa dalla tua. Prima stranezza: in ogni testo è molto raro trovare la parola “io”. Ogni frase è declinata alla prima persona plurale: “noi viviamo, noi facciamo, noi speriamo”. Verbi quasi sempre di azione e coniugati al presente. Ho provato a contare tutte le volte in cui compare il termine “servizio”. Difficile tenere il conto. Non c'è quasi racconto, in cui viene descritto il cambiamento portato nella vita di ognuno dall'incontro con la comunità, in cui non compaia l'espressione “servizio agli altri”. E allora ci si spiega quello sguardo sincero, quasi sollecito, che ti cerca, che ti trova. Quelle che ci guardano dalle cornici sono persone che non sanno più concepire se stesse se non come apertura all'altro. E' questo, io credo, il senso di questa mostra, quello che ci si porta dentro una volta usciti all'esterno: uno sguardo che rivela una nuova visione della persona; non più individuo isolato, nel chiuso della propria sfera personale o della propria famiglia, ma posto in una rete di legami, di relazioni. All'interno della quale si è al servizio degli altri, di tutti. [Marisa Prete]



The exhibition . Reflections of an observer

Entering the show "I Believe", one is immediately struck by one thing: all the faces of men, women, youth, exposed in the frames hanging on the walls, emerging from the darkness of the background, illuminated by a beautiful light, have a look just for you, the observer, facing them.

No rapt or inspired poses, nor eyes turned to an elsewhere place, nor expressions imbued to arouse hidden mysteries. They all look at you straight in the eye, with a simple expression, frank and tranquil, often joyful, welcoming your look, wandering from one portrait to the other, trying to understand the meaning of those faces, the sense of your being there "to gaze”. And while your eyes turn around a portrait, you realize that his gaze does not change, it remains focused on you. Being in an exhibition where all the paintings look at you, can generate a strange sensation.

The visitor, while walking along the walls of the exhibition, wonders: who is the true spectator? Who is the one that’s looked at? At that point, the most sensible thing is to stand there, quietly, in front of each face, trying to return his gaze. In this case the visit to an exhibition turns into something else: from viewing objects, in search of their meaning, it turns into a reciprocal glance, a relationship, in which we recognize each other.

Though, be careful not to look for the reflection of yourself in these faces. A true relationship accepts the risk of welcoming the other, in all its diversity. In "I Believe" you can do that, because the other, in addition to the look, has a story to tell, too. You can read it. And there you realize that it is a story different from yours. First strangeness: in all of the texts it is very rare to find the word "I". Each sentence is refrained from the first plural person: "we live, we do, we hope".

Verbs, primarily of action, and conjugated to the present. I tried to count how many times the term "service" is used. Difficult to keep track. There is almost no story that describes the change brought about in everyone's life by the encounter with the community, in which the expression "service to others" does not appear. And then that sincere, almost solicitous gaze looking for you and finding you, is explained. Those looking at us from the frames are people who no longer know how to conceive themselves if not in the opening to others.

This is, I believe, the meaning of this exhibition, what we carry within, once we leave it and emerge in the open air: a look that reveals a new vision of the person, no longer an isolated individual, closed within his personal or his family’s sphere, but set in a network of bonds, relationships, at the service to others, to everyone. [Marisa Prete]



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